Santuario di Fornò


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Un po' di storia...

Appunti su Fornò


Dal diario parrocchiale di don Gino Battistini emergono la figura di Pietro Bianco da Durazzo e le vicende legate alla costruzione del santuario. Prima della decadenza del secolo scorso fornò ospitò due Papi

Don Gino Battistini fu rettore del santuario dal 1946 al 1980. Trascrisse con cura quanto la storia e i documenti hanno tramandato sulle vicende di Pietro Bianco e di Fornò. Riportiamo alcuni brani del suo diario.

Nel cuore della ridente campagna, a sette chilometri da Forlì, su la riva del ronco, che un tempo vi scorreva vicino, al centro della pianura romagnola, ubere frastagliata campagna, densa di verde, s'eleva la rotonda mole del santuario di Fornò, dalla ottagona cupola, cui vigilava e sovrastava un campanile, che prima del 1870 portava la sua cuspide aerea simile a quella di S. Mercuriale di Forlì, che pel terremoto di quell'anno miseramente rovinò. Questa bella e singolare costruzione, questa meravigliosa costruzione rimane nei secoli a cantare l'anima ilare e contenta romagnola che, non chiusa nei facili contenti terreni, ma spaziante per i secoli nei campi della mistica, ha saputo imprimere la sua fisionomia fatta di forza e di serenità, svelando così un aspetto nuovo d'un'anima multiforme assetata di spiritualità.
Ed ancora oggi intorno a queste silenti basiliche, a queste meravigliose abbazie, e fra queste per il vago colore di leggenda, soffusa da una sottile vena di melanconia quella di S. Maria delle Grazie e di Misericordia in Fornò, una delle tante oasi che il quattrocento ferrigno e bellicoso elevò all'idea, alla fede, a Maria, accorrono i migliori della nostra terra ad assetare le esigenze del loro spinto e nel loro profondo e sentito spiritualismo, a porre gli auspici del loro domani.
La storia di Fornò ha l'andamento e la diafana bellezza della leggenda. Narrano le cronache di maestro Andrea Bernardi detto "il Novacula", che fu pittore, barbiere e che si dilettò di tramandare ai posteri il racconto delle gesta del suo tempo: che nel 1445 venne ad abitare a Forlì nella parte più remota del sobborgo de' Gutugni un uomo penitente, alto di statura, dai lineamenti rudi, che vestiva poveramente di bianco e che menava asprissima penitenza.
Egli era stato corsaro nella sua prima giovinezza e chissà di quante colpe e di quanti misfatti si era reso reo, quando la feluca corsara piombava nei porti cristiani, o in alto mare faceva prigionieri i navigli crociati, imprigionando, uccidendo e derubando senza pietà.
Un lume supremo gli irradiò nell'anima un vivo disgusto del suo stato, e allora si fu che la voce della coscienza parlò alto nel suo cuore, ammonendolo che doveva riparare al male fatto.
Dal porto di Ravenna ove era approdato, dicesi, dopo un'aspra navigazione, egli soletto, abbandonati i facili compagni, che ora lo schernivano perché lo intravedevano dissimile da loro, per l'intrico delle selve che coprivano come un verde labirinto la zona del Pagus Romandiolae e più precisamente quello di Ravenna, se ne venne alla Selva.
Trovò appesa ad un albero una antica effige di nostra donna di qualche ignoto artista bizantino; una Vergine nera che teneva in mano fra le braccia il suo Divin Figlio seduto in trono in una grana dai riflessi aurei.
Pietro Bianco da Durazzo d'Albania se l'ebbe come un dono di Dio (…). egli venne dunque col suo tesoro a Forlì, dove regnava Pino III degli Ordelaffi, principe talvolta buono e munificente, tal'altra crudele, cupido e geloso di reami, e si scelse la parte più solitaria di Forlì, si fabbricò una celletta, capace di contenerlo appena, ed attorno alla cella volle allevare delle galline innocenti che nel candido colore delle penne gli ricordassero la purezza immacolata di colei che è a ragione chiamata Vergine delle Vergini. (…)
Ma la fama di santità di Pietro faceva affluire alla celletta dell'eremita un mondo vario di gente, chi per consigliarsi con lui, chi per raccomandarsi alle sue preghiere, e chi per curiosità di vedere un santo; uno che ufficialmente era stato canonizzato della sua morte con uno di quei bei gesti medioevali nei quali la vox populi stava per sinonimo di vox dei. Ed il santo ne era seccato, e pensava di abbandonare la celletta troppa vicina alla città per ridursi nel folto di una selva, lontano dalle pie ma rumorose indiscrezioni della moltitudine, e dalla tentazione della vanagloria che in tanto fumo di ammirazione doveva ventargli contro come una vampa d'inferno.
Ed un giorno se ne partì, insalutato ospite, per il contado. Nei pressi di Fornò era una selva viridante dove Pietro aveva trovato la vergine bizantina; pensò che là lo riconducesse Maria, che voleva un tempio sontuoso, là dove per la prima volta s'era rivelata Madre di Misericordia e di Grazie al peccatore contrito. E s'insediò nella Selva, ne diradò lo spessore, e dietro una visione apparsagli cominciò ad ideare quel grande e severo tempio che ancora oggi si ammira. (... ) La fama già richiamava anche nella romita nuova dimora gran numero di infelici che chiedevano al santo di essere risanati, mercé l'intercessione della Vergine S.S. per le sue preghiere.
E poiché sul flutti torbidi dei malori umani caddero come petali di rose celesti le grazie dall'alto, Pietro chiamò l'immagine nostra donna de la Grazie e di Misericordia di Fornò, e volle che il tempio che doveva sorgere a lei s'intitolasse.

A chi accede alla chiesa gli si affaccia un pronao adorno di pitture e su in alto una bella statua della Vergine in marmo bianco di carrara di sapore arcaico e quasi bizantino. Il pronao è adorno di vecchi affreschi che la mania del campanile ha attribuito nientemeno che a Melozzo e alla sua scuola forlivese.
Benché assai deturpati nel restauro del 1853, portano le impronte del rinascimento, e se vogliamo credere agli storici dell'abbazia, furono attribuiti a quel don Pietro Orlandi di Bagnara, canonico lateranense che lavorò molto al monastero di S. Maria in Porto di Ravenna, e che dipinse qui il magnifico refettorio che fu demolito perché ruinava.
Per una bella porta dagli stipiti di marmo di carrara si entra nel tempio. Sull'architrave della porta si legge:
"L'ano del giubileo 1450. mi Piero Bianco da Duraco principiò questa chiesa di S.M. di Misericordia e di Gracia e facta tutti beni e ornamenti suoi bellissimi et Dio nostro dilettissimo Nostro Signore degnissimo Salvatore ecterno per sempre in secula".
Il tempio, rotondo, ha un diametro di m 33,83 ed è circoscritto da un muro dell'altezza di m 15. in mezzo a quest'edificio sorge un'edicola del pari circolare con un raggio di m 7. La parete di cui essa è costituita nell'interno misura m 20 d'altezza, e da quel punto, abbandonando la forma circolare, prende l'ottagona della quale s'adorna la cupola.
Sette sono ed erano le finestre da prima circolari, ora quadrilunghe rettangolari e l'antico piano della chiesa era più basso dell'attuale di circa un metro. Sedici arcate a sesto acuto, poggianti su pilastri sostenevano l'edicola che doveva essere di stile gotico, ma fu poi nel secolo XVI ridotta alla forma attuale.
Infatti che l'edicola fosse gotica ne è argomento l'ultimo rinvenimento di quattro finestre che l'ing. Germano, de' monumenti e scavi della Provincia di Bologna, ha trovato sopra gli archi dell'edicola, nel mettere una chiave nel gennaio del 1810. Le finestre (quattro) a sesto acuto con ghiera a mattoni rossi fecero pensare ad una correzione nel bel tempio quattrocentesco di data, ma non è difficile trovare altri esempi quattrocenteschi aventi finestre gotiche e di transizione: S. Petronio, la Ca' d'Oro...
Nel mezzo dell'edicola n'è l'altar maggiore rifatto ora grossolanamente in scagliola che reca un tronetto custodiente l'immagine de la Madonna di Grazia e di Misericordia, figura bizantina, recante il Redentore assiso, in una grana d'oro sul petto; di riscontro, a tergo, è il battistero e sovrappostovi un finissimo bassorilievo di marmo di carrara che fu attribuito a Simone, fratello di quel Donatello che vuolsi fosse in relazione con Pino degli Ordelaffi signore di Forlì.
Il sarcofago innalzato nel 1479 a Pietro Bianco è al lato destro di chi entra: un'urna di marmo sostenuta da eleganti mensole col monogramma di maria sui lati. Sul monumento è distesa la figura di Pietro in abito di penitenza, e al di sopra un affresco, attribuito al Melozzo, di cui oramai non si riconoscono neppure le linee fondamentali data l'incuria di chi di dovere, dell'umidità e del tempo. Da una relazione con incisione pubblicatasi nell'album di Roma nel 1857 leggiamo che era una deposizione dalla croce a toni forti e quasi violenti, e vi capeggiava ai piedi della croce la figura del romita. Nella sacrestia, distrutta con l'atterramento del campanile e canonica in seguito a mine per opera dei lucri tedeschi il 24.X.44. - che era l'antico coro dei frati - si ammirava un bellissimo lavabo di marmo di stile quattrocentesco ed una ghiera di porta in cotto della stessa epoca.
Da segnalare una lunetta dipinta, ora esportata su tela, vecchio affresco che si trovava a capo della scala che metteva al piano superiore, di ignoto autore, interessante per il panorama di Forlì che s'apre nello sfondo dell'affresco e che dà luce sulla topografia forlivese del secolo XV.
Un bel fregio di cotto cinge tutta la rotonda chiesa, che ha i suoi tre portali di marmo e le piastrelle di cotto col monogramma dei nomi S.S. di Gesù (S. Bernardino) e di Maria.
Alla morte di Pietro, Pino III ottenne da Papa Sisto IV un breve pei canonici regolari di porto di Ravenna per immetterli in possesso dell'abbazia di Fornò. L'elemosina raccolta da Pietro, la munificenza di Pino III ed il concorso dei popoli fecero sì che in breve spazio di tempo il cenobio di Fornò slargò, ampliandole, le sue possidenze, tanto, dice il Santarelli, da rendersi uno dei più ricchi di Italia. Basta soltanto gettare lo sguardo sulla pianta topografica che ne fece il Santarelli, che vide il convento, benché tutto cadente, ancora in piedi, per farsi una pallida idea che cosa dovette essere nei due secoli dello splendore massimo l'abbazia di Fornò. Quello che rimane non è che un lato del chiostro, a colonne di marmo d'istria nel più puro stile quattrocento, di un gusto finissimo.
Mancano i documenti sincroni per testimoniare a chi si debba l'architettura bellissima di questo cenobio, ma la differenza visibile da quella del tempio, e l'aver Pino III alla sua corte il celebre forlivese Pace Bombace, danno motivo a credere, come per primo ha rilevato il Cesari, che Fornò si debba al discepolo forlivese di Leon Battista Alberti.
Nell'anno 1567 Giulio II con 500 uomini e 24 cardinali, tornando da Bologna, si fermò a visitare Fornò, e vi è ancora nel muro dell'edicola questa memoria assieme alla vigorosa figura del Papa battagliero:

Iulius II pont. SS. Bononia in libertate pro curiae - vindicata Sacratum. hoc. Virgini. templum. invisens. veniam. accedentibus. bis. concessit anno. sal. MDVII
ed a sinistra sotto il ritratto:
Iulio II Pont. max vindici libertatis

In quel frangente alloggiò il pontefice nell'ala sinistra del convento, nelle magnifiche stanze chiamate sempre poi di Giulio II, dove ricevette il cronista Bernardi, detto il Novacula, che gli fece dono delle sue cronache manoscritte della città di Forlì.
Le stanze fastose ospitarono più tardi il letterato card. Bernardo Dovizi da Bibbiena, legato di Leone X, e caddero nell'estrema rovina nel secolo XIX. Nel 1504 Antonio II degli Ordelaffi, morendo, lasciò nel suo testamento di essere sepolto a Fornò, ma per le turbolenze dei tempi non se ne fece più nulla, e la chiesa di Fornò fu privata di un altro bel sepolcreto. La fama e lo splendore di Fornò durarono fino al 1700, nel qual tempo cominciò a deperire. I canonici regolari di S. Salvatore in Porto, prima ancora dell'invasione francese si erano ritirati a Forlì, nell'ex convento dei gesuiti (ora cenobio dei francescani) e vi mantenevano un cappellano per l'officiatura. Nel 1829 Papa Leone XII immette di nuovo i canonici di S. Maria in Porto in possesso di Fornò, soppresso dall'invasione francese, ma questi poco più vi abitarono, sia per l'antica consuetudine di abitare a Ravenna, sia per le magre rendite rimaste dalla soppressione.
Nel 1833 il card. Mastai Ferretti, vescovo di Imola, venuto a visitare nella sua villa di Casamurata il card. Falconieri arcivescovo di Ravenna, vide Fornò, ridotto all'estrema ruina, e si vuole affermasse:
«oh! il gran peccato che un'opera così bella si lasci volgere a tanta ruina».
Salito sul trono pontificale, Pio IX si ricordò di Fornò, e diede mille scudi d'oro romani della sua cassetta particolare, pel restauro.
Nel 1850 i canonici regolari di S. Salvatore intimoriti dalla perizia di 8000 scudi pel restauro, cominciarono la demolizione del chiostro che ruinava, e già (incredibile a credersi) si accingevano a demolire la chiesa, quando le popolazioni limitrofe fervide d'amore per l'antica Regina di Fornò, si opposero e con a capo i parroci limitrofi fecero vive istanze al gonfaloniere di Forlì, conte Piero Guarini e al pro-legato mons. Milesi, perché fosse risparmiata al tempio monumentale l'estrema rovina. Pio IX accolse le suppliche dei forlivesì e diede ordine di iniziare i restauri. Fu incaricato l'ing. Giacomo Santarelli che li condusse a termine nel 1857, nel qual anno il santuario fu riaperto al culto. I due grandi fregi furono rifatti dal pittore Giuseppe Cecconi di Firenze, che restaurò deturpandoli anche gli affreschi del chiostro, dell'atrio o pronao. Fece anche le vetrate delle sette finestre dipingendovi: la Madonna, Pietro Bianco, Pino III, Antonio Ordelaffi, Pio IX, Giulio II. Il grande organo secolare, che era nella vecchia chiesa di S. Domenico in Forlì, la chiesa, il restante cenobio attendevano ulteriori restauri quando l'uragano che imperversò dal 1939 al 1945 nell'europa, nel mondo ed in particolare nell'italia nostra, ha abbattuto, per mano dei nuovi lanzichenecchi, i lurchi tedeschi, per mezzo di mine, il campanile, la canonica e sinistrando grandemente anche il tempio, riducendo quasi tutto ad un cumulo di macerie. E' ferma convinzione dell'attuale rettore del santuario che tutto debba essere restituito al primitivo splendore artistico e ad onore della mistica sovrana a cui tutto il territorio limitrofo tributa, pur in un modo suo particolare, tutto il suo affetto e la sua pietà di credente.
E quando ancora le squille dal risorto campanile suoneranno l'ora della risurrezione, e Pietro Bianco dal suo marmoreo sepolcro leverà il capo beato in un sorriso di assentimento e di gioia, e nostra Donna di Grazie e di Misericordia sui flutti torbidi dei malori umani farà scendere le sue grazie come petali di rose celesti, l'allegro animo romagnolo, combattente ora nel tumulto delle nostre terre per un'ideale politico di elevazione degli umili, troverà in quest'oasi di pace l'amore alle cose belle e pure, e nel ritorno all'imperio dolce di Cristo, per mezzo del Cuore Immacolato di Maria, la soddisfazione più assoluta e completa alla sua anima multiforme assetata di spiritualità.

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